L'Europa
minaccia nuovamente l'Italia di aprire una procedura d'infrazione e
riapre il dibattito sul debito pubblico, sul pil e su quello che è
l'ormai famigerato rapporto tra i due. Soprattutto le domande sono:
c'è realmente una connessione tra debito pubblico e pil con la
possibilità di aumentare il primo per far migliorare il secondo e,
dunque, abbassarne il rapporto? In teoria tutto è possibile, ma
anche no. Chi vuole meno debito sostiene che si tratta di una
falsità, altri invece considerano che il debito è necessario per
far crescere il prodotto interno lordo. Di sicuro ci sono esempi
virtuosi: Spagna, Portogallo, ma anche la Francia, negli ultimi anni
hanno visto crescere molto il loro debito pubblico, facendo crescere
il pil e stando nei parametri. L'Italia tra il 1999 ed il 2005 ha
visto elevare il debito pubblico, ma con un pil decisamente buono
riusciva a far decrescere costantemente il rapporto tra i due. La
Grecia, invece, ridotta quasi alla fame è uscita dallo stato di
crisi, ma molti sostengono che si sia notevolmente indebolita. Qui
veniamo però all'Italia. Di certo c'è da capire quanto sia realmente
rischiosa la situazione. La sensazione è che, per il momento, le
preoccupazioni siano siano più mediatiche che reali. Intanto perché
il debito pubblico italiano per una cifra prossima all'80 per cento è
ancora in mano ai nostri connazionali. Inoltre il debito privato è
decisamente basso rispetto a quello degli altri paesi. Sono elevati i
depositi dei cittadini su conto corrente. A questo si può anche
aggiungere che gira molto denaro contante, più che in altri paesi,
sintomo che, magari il sommerso è ancora molto e questo non compare
nei dati ufficiali.
Detto questo
è chiaro che se l'Italia riuscisse ad abbassare, seppur
gradualmente, la sua elevata mole di debito pubblico non sarebbe
male. Dall'altro lato è sempre vero che se gli altri paesi europei
continueranno a crearne al loro interno come nell'ultimo decennio ben
presto raggiungeranno i livelli italiani (non è un caso che Spagna e
Francia siano i più propensi al dialogo con Roma e non alla linea
dura).
Alla fine,
però, resta la questione di rendere il debito pubblico “produttivo”,
cioè trasformarlo in investimenti che facciano crescere il pil e che
mantengano sotto certe soglie il famigerato rapporto deficit/ pil.
E' indubbio
che l'Italia dovrà fare delle riforme, che siano anche strutturali,
passando ad uno snellimento della burocrazia, ma anche con tagli a
quelli che sono gli enti veramente inutili, soprattutto su quelli
partecipati. Riforme che non potranno essere pagate sempre e solo dai
cittadini di tasca loro. E' altrettanto vero che la politica europea
del rigore sul modello dei paesi del Nord ha fallito e continuerà a
fallire. In più sul piano politico europeo, la fronda anti Ue, è
cresciuta. Molti paesi hanno visto aumentare la soglia delle forze
sovraniste inviate a Strasburgo, l'Inghilterra ha votato la Brexit ed
alle ultime elezioni continentali ha visto il partito per l'uscita
giungere al primo posto. In Italia e Francia lo sono le stesse forze
sovraniste, così come in Ungheria e Polonia. Insomma l'Unione
Europea più che minacciare sanzioni che poi finiranno nella solita
bolla di sapone con una piccola concessione da una parte ed una
dall'altra, dovrebbe pensare se il modello creato è sempre attuale e
se rispecchi la realtà dell'Unione stessa. La risposta è che
probabilmente non è così. L'Ue deve essere una risorsa e non un
freno, non può fare figli e figliastri, né può consentire
politiche protezionistiche ad un paese e non ad un altro. Così come
non può strangolare i suoi cittadini per agevolare poi gli
investitori di uno o più stati membri. Non può neppure permettere
una politica sleale interna sul mercato del lavoro. Insomma molto
deve cambiare e lo deve fare all'insegna della solidarietà su cui
poggiavano i piedi i padri costituenti. Per farlo serve che la
politica riprenda in mano ciò che oggi ha lasciato alla finanza: la
guida dell'UE.