Le parole a difesa della libertà di stampa pronunciate nelle scorse ore dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella offrono spunti di riflessione che, indipendentemente dalle posizioni, dovrebbero far ragionare su cosa sia un buon giornalismo. Ovviamente questa rubrica è insufficiente per dare le risposte, ma il dibattito che intende aprire può aiutare a raggiungere l'obiettivo
Che in Italia la libertà di stampa (in senso tecnico), nonostante le parole del politico di turno che, nel momento in cui raggiunge un ruolo di visibilità, possono far pensare la cosa opposta, non è a rischio (il dritto).
Il pericolo di una stampa sempre più soggetta alle pressioni del potente - o del finanziatore- di turno è invece tangibile (il rovescio).
Da qui dobbiamo partire per analizzare il messaggio, rigoroso sul piano costituzionale, che è stato lanciato con grande sobrietà da Mattarella. Parole che sono pesanti, soprattutto, nel riflettere quale sia la libertà di stampa e quale giornalismo meriti realmente questo paese. Un passaggio è infatti fondamentale ed entra direttamente in quello che dovrebbe essere il ruolo della professione giornalistica. Un passaggio che riprendo direttamente dai quotidiani..
"Una stampa credibile - sostiene Mattarella su Repubblica - sgombra da condizionamenti di poteri pubblici e privati, società editrici capaci di sostenere lo sforzo dell'innovazione e dell'allargamento della fruizione dei contenuti giornalistici attraverso i nuovi mezzi, sono strumenti importanti a tutela della democrazia. Questa consapevolezza deve saper guidare l' azione delle istituzioni".
Poche righe che rappresentano l'essenzialità del ruolo della stampa. Quel ruolo libero e credibile che trasformi davvero la stampa in quel "cane da guardia del potere" e, dunque, di soggetto autorevole e credibile per il cittadino che legge o che ascolta (insomma il cosiddetto quarto potere di "orwelliana" memoria).
E' sempre stato così in Italia, ma soprattutto lo è? Potremmo dire che questa libertà non è stata sempre assicurata. Non dobbiamo guardare alle classifiche mondiali che pongono il nostro Paese in posizione piuttosto bassa in tema di libertà di stampa. Quello è dovuto principalmente alle minacce che i giornalisti subiscono, alle querele cosiddette "temerarie" che si trovano a fronteggiare sul loro lavoro, al numero di cronisti che, proprio perché agiscono in libertà finiscono sotto scorta di fronte ai propositi delle organizzazioni criminali.
La libertà di stampa non si può neppure considerare in base allo stesso indirizzo politico del giornale o della televisione. All'estero ci sono degli esempi chiari. Il Times - prendiamo uno dei più influenti quotidiani europei- è tradizionalmente un giornale "conservatore", ma i suoi professionisti riescono ad avere un'autorevolezza tale per cui ci troviamo di fronte ad una testata considerata dal lettore credibile. E per questo fa opinione.
Il New York Times ha spesso sostenuto i democratici americani, ma non ha risparmiato loro critiche o assicurato elogi alla parte opposta.
In Italia, probabilmente non ci sono mai state testate considerate "super partes" -se non Il Corriere della Sera criticato però per la sua "ufficialità", cioè per il fare un giornalismo, all'epoca, considerato seduto e poco propositivo-, tanto che, nel passato, i giornali di partito hanno avuto una sorta di ruolo di "contro informazione" rispetto a quella degli editori tradizionali. Non è un caso che i casi di informazione all'epoca considerata innovativa sono stati quelli de Il Giorno, sotto la direzione di Italo Pietra e su un'intuizione del presidente dell'Eni Mattei (e siamo in ambito di un giornale che rientrava nell'orbita pubblica) e Repubblica, nata nel 1976 per impulso diretto dei giornalisti (fra l'altro importando in Italia il formato tabloid). Quotidiani ben lontani, anche nello spirito, da quelli attuali.
E' indubbio, dunque, che la stampa italiana debba innovarsi, che debba seguire quella linea tracciata dal Presidente della Repubblica, che debba riuscire, anche nell'equilibrio delle proprie opinioni, ad essere superpartes. Una stampa in cui le idee siano ben presenti al suo interno, ma che non ne compromettano la capacità di analisi. Una stampa che non partecipi alla gara tra chi urla di più e chi sa fare meglio il tifo, che lasci da parte il personalismo. Una stampa che cammini a braccetto con altre due grandi libertà, quella di espressione del proprio pensiero, ma soprattutto, di critica. E la critica è tanto più credibile quanto più si è svincolati da pressioni. Non nego che a me piacerebbe anche una stampa che sappia essere criticata e che non si arrocchi, spesso, in difese d'ufficio, ma che dialoghi, ragioni, stia sempre di più tra la gente e la ascolti, che non partecipi al dibattito politico da protagonista, ma in quel ruolo di garante che è fondamentale per farle recuperare quella centralità che, in una democrazia, è determinante. Insomma una libertà di stampa che viaggi a braccetto con una "stampa libera". Solo così le parole del Presidente della Repubblica e quelle della nostra Costituzione non cadranno nel vuoto. Noi giornalisti, nel raggiungere questo obiettivo, siamo determinanti, perché siamo i primi che la nostra libertà, ma soprattutto credibilità, dobbiamo custodirla e difenderla.
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