La rubrica di oggi ci porta a ragionare di luoghi per noi remoti che finiscono spesso all'interno della letteratura, come le «favelas». Luoghi che vengono spesso raccontati e visitati, ma che restano anche avvolti da un mistero che incuriosisce con storie che a volte fanno riflettere su molti accadimenti della vita.
Le «favelas» un tempo luoghi malfamati da cui il turista si teneva alla larga oggi, in alcuni casi, specie a Rio de Janeiro sono diventate mete di visite guidate (il dritto).
Nonostante questo restano simbolo di miseria che si allarga a tutto il continente sudamericano (il rovescio).
Personalmente non ho mai visitato il Sud America, anche se da sempre ne sono attratto, sia sotto l'aspetto turistico, sia sotto quello della cultura e della letteratura. Da lì giungono molte storie che mi hanno fatto appassionare ad un mondo tanto vicino, quanto lontano da quello europeo.
Le «favelas» mi hanno sempre incuriosito, non tanto come luoghi, spesso fatiscenti che richiamano le famose «baracche» delle periferie delle grandi città italiane del secondo Dopoguerra, quanto perché da qui sono partite grandi storie, soprattutto nel mondo dello sport. Così posso spiegare la mia curiosità e cerco di illustrarne il perché.
Sono stati spesso i calciatori brasiliani a raccontare le loro storie di miseria che, di colpo, grazie alla capacità di calciare un pallone hanno visto cambiarne il corso della vita. Quello che però mi ha sempre sorpreso è il legame che gli stessi hanno, nella maggior parte dei casi, dimostrato di avere con il luogo natio. Non sono così mancate iniziative soprattutto per quei bambini di strada in cui loro si riconoscevano. Quelli che, con un pallone fatto, magari di stracci, avrebbe potuto essere il campione del futuro.
Nei giorni scorsi, però, leggevo un libro in cui l'autore raccontava la vita in uno di questi quartieri che può essere visitato e lasciava comunque trasparire, nelle difficoltà e nella povertà, un certo orgoglio da parte dei suoi abitanti. Un orgoglio che parlava di dignità, di persone che con l'equivalente di pochi euro mandano avanti una famiglia, ma anche in cui ci sono valori ancora forti, come la solidarietà che permettono a queste persone di andare avanti. Valori che i paesi più ricchi stanno sempre più perdendo.
Inutile dire che questi racconti non facciano certo invidiare chi vive in questi luoghi, ma sembrano riportare ad un mondo che in Italia abbiamo conosciuto e che oggi, dopo essere quasi sparito, purtroppo ritorna.
Insomma la mente va dunque ad una Penisola del passato con le baraccopoli nelle periferie delle grandi città, spesso abitate dagli immigrati che, all'epoca, si spostavano dal Meridione al Nord Italia, ma anche delle realtà più piccole. Grosseto aveva le sue baracche nella zona di via Clodia e le ha avute fino agli anni '90. Luoghi in cui la gente si era abituata ed ha continuato a vivere per tanti anni. La stessa Shangai a Marina di Grosseto rappresentava un luogo simile, molto lontano da quello delle villette e delle case di vacanza che possiamo vedere oggi. Un'immagine che è ancora nitida nei ricordi di tanti grossetani che lì avevano la propria - all'epoca- modesta residenza estiva che andava ad affiancarsi a chi, invece, ci viveva tutto l'anno.
Da qui la riflessione su una società che sta cambiando e che sta sempre più perdendo molti valori che sono alla base di una società. Quello spirito di gruppo che per molto tempo ha mandato avanti il nostro Paese nelle difficoltà e che andrebbe ritrovato nel futuro. Uno spirito che spesso ritroviamo nei racconti e nei reportage dalle «favelas» e che tutti noi vorremmo, anche per i loro abitanti, veder ancora esistere, ma all'interno di una società che sia sempre migliore e che li porti a vivere in condizioni decisamente più dignitose. Quella dignità che, però, nonostante la delinquenza che caratterizza questi quartieri, molta gente non vuol perdere.
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